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Io come scrittore
Dal racconto Un amore sulla strada tratto dal libro Incubi galanti di un Casanova veneziano
Correvo, filavo ai centocinquanta. Ero in gamba a guidare come lo ero con le poesie, ma non bastava perché nonostante tutto la mia casa era vuota e la circonferenza del mio orizzonte mi relegava in una dimensione limitata, come già detto. Ero in prossimità dello svincolo per Padova ovest, quando una berlina scura, un BMW, passò a lato superandomi. Doveva andare ai centottanta e sopra il culo, dietro il cristallo posteriore, scorsi un paio di labbra sorridenti. Era una bella figliola, una brunetta niente male.
Poi l’auto si allontanò, parve, sculettando. Quel sorriso mi fece compagnia per un poco e ci misi su un CD di Tom Waits che mi ispirava bene. Accelerai e svanito il sorriso prese forma la mia ex. A lei non piacevano le poesie e neppure a Edith. Probabilmente le mie stesse poesie non amavano me, non si sentivano lusingate per colpa della mia mancanza di pathos. Difettavo di pathos e questa roba non la si compra al mercato. Si forma piano piano, si compone e si stabilizza nel nostro locus empireo. Aprii un po’ il finestrino e tirai fuori un mezzo sigaro, era importante fumare.
A Edith dava fastidio, ma sopportava; sosteneva invece che amava ogni mio vizio e diceva altre cose, per esempio che mi voleva sposare. Ma non era possibile, a quel tempo mi mancava il divorzio e Edith, forse non lo realizzava, era anche lei sposata. Bisognava ogni tanto ricordarglielo. Percorsi dieci chilometri di rettilineo quando mi accorsi che il grosso BMW era accostato. C’era il conducente che era sceso per pisciare e dal finestrino posteriore aperto vidi una mano che si agitava. Era la moretta, che accortasi della mia auto mi salutava. Rallentai e diedi due colpi di clacson.
Ora l’avevo scorta, poteva avere venticinque anni e decisamente sembrava carina. Peccato il frangente non si prestasse, peccato davvero. Continuai a correre piano controllando lo specchietto retrovisore e sperando di intravedere quell’auto avvicinarsi. E infatti, dopo circa mezz’ora, all’altezza di Arzignano, eccola che sopraggiungeva veloce. Questa volta la vidi bene, brillava di luce propria: una cometa luminosa recante la buona novella. Mentre era in atto il sorpasso, la tizia mi guardò fisso muovendo le labbra.
Poi mi fece cenno di accelerare e di mantenermi parallelo per qualche istante. Così feci e lei, dopo aver scritto qualcosa su di un foglio, lo appoggiò al finestrino così da permettermi di leggere. Era il suo nome e numero di telefono, tutto scritto con un pennarello nero. Era lì, tutto su quel foglio, parole chiare e grandi, non c’era da sbagliare. Aprii il cruscotto a lato, presi carta e penna e riportai la preziosa notizia usando solo e sempre una mano.
Si chiamava Vera. Il nome prometteva bene, ne avevo conosciute tante di finte, questa almeno ci provava col nome giusto... continua
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