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Ultima dimora

Io come scrittore

L’ultima dimora

(Liberamente ispirato a un racconto di Maupassant).

Sentivo freddo, un freddo acuto e penetrante. La mia anima
ghiacciata pungeva e mi forava i visceri. Ciononostante, amavo
il gelo: da esso ci si ripara, il caldo invece opprime. Eppure,
quella sera mi si accapponava la pelle ma i motivi, quelli veri,
erano altri. La funzione durò il tempo necessario, in chiesa
non eravamo poi molti. Tutti, quei pochi, con sguardo triste.
I candelabri troneggiavano sull’altare come alberi di un’antica
goletta e il lumino rosso testimoniava la presenza di Dio. Ma
dov’era? Dio non l’aveva certo salvata e ora quella severa e
lucida bara emanava un suo chiarore, un chiarore spettrale.
Ero stato l’uomo più felice e la mia felicità aveva un nome:
Manuela. Manuela Era la più bella creatura al mondo e covava
un sentimento puro, certo, immenso, un sentimento peraltro
da me completamente corrisposto.
Lei, figlia di nobile e onesta famiglia, frequentava con assiduità
il tempio di Dio. Timorata della parola divina, morigerata
in tutto, educata e sobria. Pur amandomi profondamente,
aveva voluto mantenersi casta fino al giorno del matrimonio.
Era straordinaria, come lei non ce n’erano. Convolammo
a nozze sfoggiando non sfarzi e ricchezze, bensì sorrisi e
riconoscimenti. I nostri amici ci amavano e forse con un po’
d’invidia. Una ragazza così casta era rara, una ragazza così
devota era un dono divino.
Io lavoravo sodo e subito dopo averla sposata mi trovai
immerso nelle mie meticolose ricerche antropologiche.
Studiavo parecchio e mi aggiornavo di continuo per poter
essere all’altezza, per espletare al meglio il mio ruolo di
consulente scientifico. Oltre a questo lavoro, ero dedito
ad approfondimenti sulla psicologia dei comportamenti
individuali e delle masse. Manuela mi ammirava e coglieva dei
fiori dal giardino. I suoi occhi chiari gareggiavano, invincibili,
con i tenui colori dei petali. Volava volava volava… Complici
i delicati tratti del suo viso. Il suo sorriso veleggiava sul dorso
alato del suo tempo più bello, quello presente. Ciononostante
non conoscevo nulla del suo passato, ma non v’eran dubbi
fosse limpido e casto.
Manuela si ammalò. Dapprima una debole febbre, poi, via
via che il tempo scorreva, fu evidente che si trattava di un
male incurabile. I medici fecero il possibile, ci prodigammo
tutti ad assisterla ma Manuela peggiorava. I suoi begli occhi
presero a incupirsi, i capelli a ingrigirsi e il viso a intristirsi.
Solo il sentimento non mutò. L’ultima sua voce invocò il mio
amore. I miei appunti e i miei libri erano stati una condanna,
mi avevano rubato il tempo, me l’avevano portata via.
Quando il carro funebre si infilò nella stradina del camposanto,
tutt’attorno sgorgò il nulla, il nulla assoluto, non pietoso, non
misericordioso, ma opprimente e immenso. Camminavo e
guardavo a terra strisciando i piedi tra la ghiaia, creando dei
piccoli solchi, e intanto i ricordi del mio passato infinito si
frantumavano e dissolvevano tra i sassi bianchi. Il mio spirito
cominciò a perdersi nel freddo pungente affannandosi, a
tastoni, nei ricordi senza mai afferrarli, inseguendoli come
fossero fantasmi fuggenti. Dopo la cerimonia cominciò l’assillo.
Gli amici e i parenti sparirono e mi ritrovai solo di fronte alle
mille cattedrali dormienti. Disorientato vagai tra anime diafane
e stanche, indebolite dalla continua evocazione dei vivi, finché
il crepuscolo mi trovò in affanno per la continua afflizione. Ero
tornato all’ultima dimora di lei, rimiravo la sua immagine. I
suoi occhi sereni parevano guardarmi pietosi e brillavano. Lei,
uno splendido arcobaleno caduto in quella fossa. Mi abbassai

e rimasi, piegato sulle ginocchia, a evocare i suoi splendori.
Si fece buio, dietro di esso tutte le complicità del silenzio. Mi
girai di lato, un rumore appena percettibile aveva attirato
la mia attenzione, e sotto un grande angelo in marmo notai
una lunga ombra crociata. La luna, rotonda e lucente, faceva
sfoggio di sé e investiva tutto ciò che poteva, compresa una
grossa croce. Il grosso angelo, con sguardo ammonitore, mi
indicò un punto preciso. La spada che teneva in mano era
puntata verso un modesto tumulo. I numerosi granelli della
sommità cominciarono a scorrere lievemente verso il basso,
poi il terriccio cominciò a cedere. Non sapendo che fare e con
l’angoscia in corpo, indietreggiai lentamente calpestando il
marmo della mia defunta amata. Poi, col peso della luna sulle
spalle, notai i contorni netti della mia ombra sul suolo. Ne ebbi
timore e indietreggiando ulteriormente andai a sbattere contro
qualcosa. Sentii un suono secco, come un vaso che cadeva. Era
quello che conteneva i fiori di Manuela. Tentai di rimediare al
danno ma le mie mani non ubbidivano; le dita non avevano
presa e i cocci sfuggirono via. Alle mie spalle un altro rumore,
questa volta di legno spezzato, poi un altro ancora, come un
risucchio accompagnato da un profondo sospiro. Terrorizzato,
corsi a nascondermi dietro una siepe dalla cui base, tra il
fogliame, si dipartiva il tronco di un maestoso cipresso. Il
cuore non cessava di sbattere e di pompare in fretta e il fiato mi
si fece corto. Rannicchiato, mi stringevo all’albero ben attento a
non respirare troppo e la corteccia, ruvida e dura, mi avvertiva
che ero ben cosciente.
Guardai in direzione del tumulo, il quale, con mio grande
stupore, si era trasformato in un polveroso cratere. A lato,
sulla destra, vi era la grossa croce che spezzata aveva prodotto
il rumore secco. Ad un tratto, la luna sparì dietro una spessa
nube e le tenebre dipinsero di nero ogni cosa. Non vidi più
nulla ma capii che qualcosa stava accadendo: rumore di passi
lenti, fruscii, sospiri e piccoli boati. Quando poi la nube si
assottigliò e le tenebre attutirono le oscure pennellate, distinsi
confusamente delle sagome. Queste avanzavano lentamente
in maniera disordinata verso la tomba di Manuela, la
circondarono e col dito puntato la indicarono come a prendere
atto del nuovo arrivo.
«Fratelli» sibilò un alto scheletro vestito solamente di un largo
cencio, che gli ricopriva parte della spalla e dell’arto destro,
«guardate sotto la foto cos’è riportato: “Onesta in vita, onesta
oltre la vita”».
«Sapete a me cosa hanno scritto? “Onorato salumaio, esempio
di rettitudine”. Ma, vi dirò, ho imbrogliato tanta gente con la
mia bilancia. Non me ne vergogno, truffavo oneste mamme
e lodevoli bambini vendendo loro latte e caramelle a prezzi
maggiorati».
Saltò su appena dopo un altro scheletro. Questi aveva in testa
un berretto da ammiraglio.
«Ho comandato una lussuosa nave e quando essa affondò, per
mia negligenza, perirono cinquantotto persone. Nonostante
tutto, mi hanno premiato come un eroe scrupoloso».
«Facevo l’infermiera!» intervenne d’improvviso una carcassa
ancora con qualche vecchio brano di carne. «Ero un angelo
della morte e mi hanno commemorata come “instancabile
crocerossina”». Io guardavo allibito, soffocando il terrore.
Ascoltavo e ansimavo come dopo una lunga corsa. Quel
quadro surreale si componeva di una propria e personalissima
scenografia alla quale, io, unico spettatore, ancora col mio vivo
dolore, assistevo pietrificato.
I fantocci senza vita, senza soffio, si fecero ancor più vicini alla
tomba di Manuela. Quello col cappello da ammiraglio prese
a ridere: «Ah ah! Dovremmo cambiare l’epitaffio di questa
bella fanciulla». Se ne incaricò il salumaio. Tolse la lodevole
targa e la sostituì con un’altra. Tutti applaudirono, dopodiché
calò il silenzio, si voltarono e mestamente tornarono al luogo
d’origine. Finalmente un’occasione per correre via, finalmente
solo. Raccolsi tutto il mio coraggio e feci alcuni passi verso
l’uscita, ma non poi molti. Mi guardai attorno, incassai la
testa tra le spalle e cautamente tornai verso Manuela, il mio
struggente amore passato a miglior vita. Mi avvicinai alla
fotografia, presi di tasca l’accendino, l’accesi e lo avvicinai alla
nuova scritta, riportava quanto segue:
Astuta meretrice, che in vita seppe tener segreti i suoi molteplici
misfatti

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